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Il modello familiare di una volta? Non basta più, la ricerca di UniTn: “L'occupazione femminile protegge dal rischio di povertà lavorativa”

L'indagine condotta da Paolo Barbieri, Stefani Scherer e Giorgio Cutuli ha analizzato i dati di 14 paesi europei tra il 2004 e il 2019, periodo di crisi finanziarie e cambiamenti sociali. “Il modello familiare del breadwinner non basta più. L'elemento chiave per uscire da una situazione di disagio economico è rappresentato dall'occupazione del partner”

Di Alissa Claire Collavo - 06 febbraio 2024 - 13:19

TRENTO. Se il lavoro è uno dei principali fattori che consente a una persona di realizzarsi, sia dal punto di vista professionale che personale, a volte questo non è sufficiente per evitare di vivere in una condizione di povertà. Questo vale soprattutto per le famiglie monoreddito.

 

Parte da questa considerazione, l'indagine scientifica condotta dai professori del Dipartimento di sociologia dell'Università di Trento, Paolo Barbieri, Stefani Scherer e Giorgio Cutuli, che hanno analizzato i dati di 14 paesi europei tra il 2004 e il 2019, quindicennio di crisi finanziarie e cambiamenti sociali. 

 

“Il modello familiare di una volta, il cosiddetto male breadwinner model, dove era l’uomo soltanto a guadagnare un salario e a provvedere al mantenimento della famiglia, non basta più – si legge nello studio pubblicato sulla rivista European Societies – L’elemento chiave per uscire da una situazione di disagio economico ed evitare in futuro di tornarci, è rappresentato dall’occupazione del partner. Nella maggioranza dei casi si tratta di donne”.

 

Al giorno d'oggi, gli individui occupati appartenenti a famiglie monoreddito sono più a rischio di essere ‘lavoratori in condizione di povertà’; se però lavora anche il secondo partner, solitamente donna, il rischio di povertà del nucleo familiare si riduce drasticamente.  

 

Il concetto di povertà lavorativa – che in sociologia viene definito “in-work poverty” – fa riferimento alla condizione nel quale si trova un lavoratore che dichiara di essere stato occupato per almeno 7 mesi nell'anno di riferimento e che, insieme al suo nucleo familiare, pur godendo di un reddito da lavoro, vive al di sotto della soglia di povertà.

 

Oltre alla dimensione individuale della persona, l' “in-work poverty” tiene conto anche della dimensione familiare, nello specifico la struttura demografica e la composizione occupazione del nucleo stesso. Può infatti accadere che un individuo abbia uno stipendio in media con la sua posizione occupazionale ma che abbia a suo carico una famiglia numerosa, e quindi sia più incline a ricadere nella condizione di in-work poor.

 

La ricerca ha tenuto conto delle condizioni lavorative di uomini e donne tra i 18 e i 65 anni, prestando attenzione al reddito familiare, al numero dei figli, al livello di istruzione, alle condizioni lavorative di chi ha la responsabilità dello stipendio, al tipo e alla durata del contratto. Aspetto interessante dimostrando come il tasso di rischio di povertà lavorativa è maggiormente elevato nei paesi dell’Europa mediterranea dove sono più presenti famiglie monoreddito: Italia, Spagna, Grecia e Portogallo.

 

Nel caso specifico dell’Italia, i lavoratori poveri (working poors) sono il 12% dei 22 milioni di occupati, ossia circa 2,6 milioni. Ma se si considerano anche i familiari, il dato raddoppia. I lavoratori più esposti sono quelli non qualificati, autonomi, con contratti atipici, impiegati nei servizi di supporto alle imprese e di cura alla persona, che occupano manodopera non specializzata. 

 

Un altro aspetto interessante riguarda la permanenza in uno stato di povertà lavorativa e il rischio di ritornarci. Anche in questo caso per i gruppi monoreddito, di classe sociale bassa, con una bassa istruzione e poche risorse è più difficile riscattarsi.

 

In conclusione, i meccanismi che producono la povertà lavorativa sono elementi di tipo strutturale: stipendi bassi, lavoro precario, bassa istruzione e crescita del settore dei servizi a bassa produttività.

Altro punto, i sussidi economici elargiti a favore delle classi più bisognose che, secondo lo studio, non riducono il rischio povertà.

 

“C'è un dibattito aperto sul fatto che distribuire soldi crei dipendenza dal welfare”, spiega il professor Paolo Barbieri. “Questi interventi funzionano solo se riduce il rischio di ritornare in povertà una volta che la misura finisce, ovvero se un domani la famiglia in questione non sarà più povera”

 

“Quello che noi mostriamo – continua Barbieri – è che questo meccanismo di “genuine state dependance” ha un peso causale relativamente basso nel determinare il rischio di persistenza nella povertà lavorativa. I nostri risultati sostengono una lettura secondo la quale creare occasioni occupazionali, unitamente a sostenere politiche attive del lavoro e occupazione femminile, è più efficace che non limitarsi a distribuire reddito”.

 

I regimi familiari a doppio reddito, infatti, hanno il potenziale per migliorare l'uguaglianza sociale, non solo tra uomini e donne, ma anche tra le generazioni e tra le varie classi sociali

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